Aprendo il cantiere delle strutture dogmatiche…
D’improvviso la danza.
Intrigato, affascinato da i cambiamenti di stato del corpo umano, dai volti truccati, dalla solennità e dalla futilità dei vestiti, sono fuggito da quelli che ragionano come teste mozze, vecchia espressione greca da meditare. Può darsi troppo prossimo ai contadini abituati al corpo a corpo con gli animali, rimasi stupito in passato dell’indifferenza nei riguardi di espressioni come corpo di un testo, corpo del vino, corpo sociale, corpi costituiti, ecc.
Da dove viene, pensai, questa attitudine verso il vocabolo “corpo”, riportato in primo luogo alla medicina, poi arricchito di considerazioni teologiche tramite l’esegesi dell’Incarnazione divina, e alla fine messo nel ripostiglio dal pietismo barocco del XVII secolo? Si veda l’iconografia di Hermann Hugo nel 1624… che anticipa le più importanti interpretazioni del legalismo puritano del XIX secolo borghese. A guardarvi da più vicino, come ci invita una psicanalisi formata di clinica e di storia dei miti, il tema del corpo-tomba dell’anima, vale a dire del desiderio, notifica all’uomo il “Ricordati” della tua condizione mortale…
Questo ricordo di un essenziale misconosciuto amplia la nostra questione: da dove viene che la cosa di carne e di sangue designata da questa entità lessicale, il corpo, sia divenuta metafora infinitamente moltiplicata? Si tratterebbe, in questi transfert semantici, di vestigia di un accesso primitivo dell’Universo, per socializzarlo, dargli forma umana tramite la parola?
Mi sono a lungo domandato: perché il fenomeno di una scrittura del rapporto con il sé e con il mondo tramite il corpo danzante - i sistemi coreografici così diversificati quanto le lingue - fu così cruciale nel mio cammino, all’inizio un poco cieco, verso un’antropologia rinnovata? La risposta mi fu data con effetto di ritardo (“après-coup”) tramite un’osservazione carpita al musicologo Curt Sachs: “La danza è la prima nata tra le arti. Prima di affidare le proprie emozioni alla pietra, alla parola, al suono, l’uomo si serve del proprio corpo per organizzare lo spazio e per ritmare il tempo”.
Prima di affrontare le traversate che la psicoanalisi rende possibile su questo terreno, avevo ricevuto dall’Africa qualche lezione memorabile, tramite la danza precisamente, mettendo in rilievo, nella mia rappresentazione del destino, la marcatura dell’uomo occidentale tramite la distinzione corpo/spirito, venuto dal più lontano della civiltà europea.
Conseguentemente, l’assenza di riflessione sociale approfondita sullo statuto del significante “corpo” mi diveniva meno estranea, al tempo stesso in cui si profilava un’esigenza di erudizione inedita, lo studio delle gestualità coreografiche. Il che vuol dire considerare la danza per quel che essa è: il discorso muto del corpo messo in scena.
Poco a poco si illuminava questa transumanza del termine “corpo”, migrante e ritornante verso il suo sito originario, un va e vieni tra la scena soggettiva e la scena sociale attraverso la quale vivono e si riproducono i montaggi istituzionali. Se la riflessione si approfondisce, interrogando a partire dall’affermazione che la società stessa, in quanto portata dalla parola, è un Testo, l’orizzonte si libera: ogni Tradizione si forma, si decompone e si ricompone come un Testo sedimentario, al modo di un palinsesto.
Le generazioni si succedono, ma questo teatro di parole in cui gli attori sono delle finzioni grammaticali rimane. Secondo questa prospettiva, l’interrogazione in tutti i campi - Fiduciario (abbandoniamo il termine usato “Religione”), politico, giuridico - richiede un saper-interpretare che sia all’altezza, un’ermeneutica che abbraccia il memoriale di una civiltà.
Una cosa tira l’altra, riprendendo un vocabolario ostracizzato (dogma, dogmatismo, dogmaticità), riscopriamo quel che l’umanità ha sempre saputo e che apre la comprensione delle vie d’accesso della specie all’istituzione della Ragione: la condizione teatrale dell’animale parlante. Cogliere la formazione delle Tradizioni costituisce il bagaglio necessario per affrontare l’estraneità coreografica, indissociabile dal suo fondamento universale.
Un primo momento per tirare il fiato, prima di fare il passo verso questo studio, era stata la frequentazione degli uomini del medioevo e delle genti del Rinascimento: teologi del Corpo mistico, liturgisti invocanti la musica dei pianeti, poeti-lettori di uno Zodiaco eucaristico…Tornando verso i canonisti e conoscendo l’avversione dei miei contemporanei per i glossatori medioevali e le esigenze del mio metodo, partecipai, al di fuori della Parigi sessantottesca, al circolo internazionale di eruditi volti verso le fonti della sacralità politica e giuridica (Stephan Kuttner, Ernst Kantorowicz, Gaines Post…)
Ricordandomi dell’attiva benevolenza dei miei Maestri neri, cominciai allora ad aprire il vasto cantiere delle strutture dogmatiche, unendo la giuridicità tradizionale dell’Europa ove era fiorito l’enigmatico (per me) divieto delle danze e che comportava un tesoro di indicazioni sui popoli pagani - gli uomini delle foreste, i selvaggi (una parola formata sul latino silva= la foresta) - e le pratiche di istituzione del corpo elaborate nel corso dei Tempi Moderni dall’Occidente.
L’incontro con i poemi-mediatori, di Mallarmé, di Valery, questi due pensatori della danza, poi il mio scritto trasgressivo degli standards, sotto la rubrica La Passione di essere un altro, sono stati gli istanti decisivi della mia impresa. Lacan aveva accolto, senza proferir verbo né maledire, nella sua collana questo libro con un sottotitolo preciso - Studio per la danza -, ma la sua Scuola, impigliata in un conformismo totalitario, arricciò il naso! E fu dal lato dei giovani coreografi o danzatori, dal regista Jean Rouch e dallo specialista della preistoria André Leroi-Gourhan, che ricevetti… come dire? - l’equivalente di un conforto…
Ne sappiamo ancora troppo poco sulla danza. Essa appartiene all’universo tenebroso delle nostre origini, a quel lontano che noi chiamiamo la preistoria, ove l’animale parlante entrava nella coscienza riflessiva, affrontando nel terrore la materialità smaterializzata dal linguaggio.
Sotto l’impero della necessità, il proprio corpo e il mondo non sono stati abitabili per l’uomo se non mediante la teatralizzazione generalizzata, vale a dire sono stati messi in scena, ricomposti tramite la finzione, tramite la mediazione delle immagini e delle parole.
Andando più lontano di Curt Sachs, dico: se il mondo ha potuto divenire prigioniero dell’uomo, e l’uomo prigioniero del mondo, se la relazione uomo/mondo ha preso statuto di interlocuzione attraverso un legame di identità/alterità, questa oscillazione è dovuta all’invenzione dello strumento primo della sopravvivenza: l’invenzione delle procedure cerimoniali che permettono al pensiero di emergere nel modo, prima di tutto, sensuale - detto altrimenti, al modo estetico.
Una precisazione, per cogliere l’estensione del campo aperto dallo studio delle strutture dogmatiche in cui si inserisce il fenomeno delle danze.
Mentre l’Occidente parla di scrittura per quel che lo concerne, conformemente alla letteralità del termine “coreo” -“grafia”, ho rilevato che tale riferimento al potere di scrivere corporalmente - significare un corpo secondo tramite il movimento del corpo fisico - tende ad attenuarsi a partire dal momento in cui si tratta di prendere in conto la scienza dei corpi danzanti estranea al nostro proprio sistema di rappresentazione. La problematizzazione europea della danza come scrittura esita ad avventurarsi in questi Altrove esotici, in cui si praticano altrimenti le cerimonie dell’alienazione coreografica.
Siamo i discendenti dell’uomo corpo e anima, di un fascio di formulazioni intorno a un tema antico cristianizzato che situa l’uomo nella Natura: l’animale bipede senza ali, inadatto a elevarsi nell’aria, se non nel giorno della sua morte, quando l’anima raggiunge il Cielo.
Tale definizione “naturalista” ha pesato sulle paure popolari, miscelate all’odio, verso coloro che tentavano di fabbricare oggetti volanti giudicati opera di Satana… Se ne accorse Leonardo da Vinci, trasgressore a suo modo quando, tuttofare di genio, annunciò l’aviazione: “il grande uccello prenderà volo, riempiendo l’Universo di stupore”.
Sotto la Modernità liberata dall’interdetto, l’atto di danzare prende statuto di metamorfosi poetica. Il comparativismo dogmatico chiarisce il fatto che la danza in Occidente sia pensata come sradicamento di sé, volo, contrariamente ad altre tradizioni, in Africa, in Asia, ove danzare procede o dal calpestio ritmato del suolo, o da una ginnastica di gesti che scolpiscono il corpo, in rapporto con delle rappresentazioni, anche esse particolari, dell’interlocuzione dell’uomo e del mondo. E in questo Altrove, le musiche solidali della danza privilegiano altre forme strumentali, per esempio la voce personalizzata dei tamburi…
Traduzione : Paolo Héritier